[I miei preferiti] Un'ottima annata - A good year







In quella che è stata davvero "un'ottima annata" cinematografica, la pellicola firmata Ridley Scott di certo non entusiasmò i critici. Nel 2006, infatti, furono ben altri i film che si contesero premi e primati al botteghino (per citarne alcuni: "300",  il secondo capitolo di "Pirati dei Caraibi", "The Departed", "La ricerca della felicità", "Il diavolo veste Prada" ecc).
"A good year" è stato considerato se non un flop, di sicuro non all'altezza del precedente duetto Scott-Crowe ("Il gladiatore").
Tra le principali obiezioni dei detrattori c'è una eccessiva prevedibilità della trama. In effetti, il lieto fine della storia d'amore tra il protagonista e Fanny (Marion Cotillard) si respira già dal loro primo incontro. Tuttavia, non essendo in presenza di un thriller, genere nel quale lasciare gli spettatori incerti sull'esito delle vicende è fondamentale, possiamo concentrarci su tutto il resto. Ed è proprio questo "resto" a fare la differenza.
Tutta la prima parte della pellicola è studiata appositamente per creare un netto contrasto con la successiva ambientazione francese. La seconda scena del film, infatti, si svolge a Londra, nel 30 St Mary Axe (l'edificio meglio conosciuto come "Gherkin"): Max riesce a compiere un'audace seppur scorretta operazione di borsa, vendendo e poi riacquistando migliaia di obbligazioni. Assistiamo qui alla consacrazione della massima "il tempo è denaro", motto che potrebbe sintetizzare la concezione del mondo da parte del protagonista fino a quel momento. A ciò si aggiunge una fotografia che gioca praticamente solo con colori freddi e neutri: il tipico grigiore da arredamento d'ufficio, monotono e impersonale.
Questo incipit è completamente ribaltato quando il protagonista si reca in Francia: il tempo si dilata, non è più "il segreto della ricchezza" (come Max è solito ripetere ai suoi collaboratori), ma diventa "la cosa più importante nella comicità", come, invece, si divertiva a ripetere lo zio Henry.
I colori, poi, diventano caldi e sgargianti, tipici della Provenza: bianco, giallo, arancione e il verde delle sterminate vigne. Un cambio repentino, dalla notte al giorno.
La fotografia (premiata solo ai "Satellite Awards" e snobbata dai premi più prestigiosi) si supera nel disegnare lo "Château La Siroque" ereditato dallo zio Henry. Viene ricreata un'atmosfera estremamente suggestiva e vintage: un paradiso terrestre impolverato e nebuloso, perfetta metafora della personalità di Max un tempo vitale, ora sbiadita.
Colpisce la minuziosa attenzione dedicata da regia e sceneggiatura ai particolari che testimoniano il ritorno alle origini del protagonista. I ricordi non sono mai rievocati casualmente, ma nascono dall'associazione di idee in seguito a immagini e odori come, per esempio,  il sigaro e l'inchiostro un tempo usati dal vecchio Henry.
Ogni angolo della tenuta diventa un mezzo che fa ripiombare Max nel passato: la piscina dove amava tuffarsi da piccolo, il campo da tennis, la cantina dove fermentava il vino, il tavolo in cortile dove giocavano a scacchi. Proprio questi ricordi, sono forse le scene più belle del film con un grande Albert Finney nei panni dello zio, sempre pronto a distillare consigli su come debba vestirsi, comportarsi e vivere un gentiluomo. Consigli, peraltro, mai dimenticati dal suo piccolo "Maximillion", ma che riaffiorano assieme ai ricordi.
In questa commedia si sorride anche spesso e volentieri, con le frequenti provocazioni campanilistiche tra Inghilterra e Francia e tramite scene fortemente autoironiche per i personaggi, come la partita a tennis degli "scoppiati" Max e M. Duflot. Autoironia che circonda e avvolge il protagonista: praticamente tutti i rapporti interpersonali di Skinner celano dietro ad un necessario rispetto per una figura autorevole come la sua, un profondo disprezzo dovuto al suo carattere freddo e spietato. Nell'intera pellicola si contano almeno una dozzina di insulti che gli vengono rivolti alle spalle da nove personaggi diversi. Lo spettatore si accorge, a differenza di Max, di come fosse una persona profondamente sola.
Infine, una particolare menzione merita la notevolissima colonna sonora, vero fiore all'occhiello dell'opera. E' allo stesso tempo adatta e originalissima: spazia dalla risalente "Breezin' along with the breeze" (prima metà del '900), alla recente "Moi Lolita" di Alizee, passando per brani intriganti e suggestivi come "How can I be sure of you" di Harry Nilsson o l'eccezionale versione francese di "Hey Joe" di Johnny Hallyday (rivisitazione della ben più famosa "Hey Joe" di Jimi Hendrix).
Una qualità e un'eterogeneità di stili veramente incredibile e quantomai azzeccata.
Esistono moltissimi film che raccontano una trasformazione del protagonista, ma nessun altro è riuscito a veicolare tutte le emozioni e le reminescenze che necessariamente si accompagnano ad un'epifania morale, come in "Un'ottima annata".
Fotografia, scenografia e sonoro avrebbero meritato sicuramente dei riconoscimenti maggiori di quelli tribuiti ad un film perlopiù snobbato
Ingiustamente.


VOTO: 7.9\10

Commenti

  1. Il film non ho ancora avuto il piacere di vederlo, però è sempre belle veder scrivere così bene, con così tanta passione e soprattutto, descrivere ciò che si è visto con la tua parsimonia.
    Fai venir voglia di volere bene al cinema, bravissimo!

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  2. Non ho visto "Un'ottima annata" ma dopo questa recensione devo assolitamente rimediare!

    RispondiElimina

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